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Cronache

  • Bianca
  • 6 nov 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

Una musica assordante proveniva dalla stanza accanto e l’unica cosa che in quel momento riusciva a fare era coprirsi le orecchie con le mani, applicando tutta la pressione che la poca forza che le era rimasta le consentiva di esercitare. Un leggero tremolio le scuoteva le dita e piano piano si dirigeva verso le braccia, ma più percepiva quel tremolio crescere, più premeva i palmi contro le orecchie. Non voleva più sentire quella musica caotica e ormai indistinta che le rimbombava nei timpani. Non voleva più sentirla.

Fece qualche passo indietro, senza curarsi di controllare cosa ci fosse sui suoi passi e senza preoccuparsi di andare a sbattere contro il mobilio che occupava la camera. Si accasciò sul pavimento quando le gambe cominciarono a cedere sotto il peso di quella serata che sembrava riprodursi senza sosta nella sua testa, come se il nastro di una videocasseta si fosse incantato e continuasse a mostrare la stessa scena, ancora e ancora.

Le sue ginocchia impattarono dolorosamente contro il pavimento freddo e liscio. Eppure quel dolore, che certamente aveva sentito cadendo, non venne percepito dal suo cervello come fastidioso o insopportabile: fu una piacevole distrazione dalla canzone che ancora suonava a volume altisssimo.

Una manciata di secondi, forse qualche minuto o un paio di ore: rannicchiata su quelle piastrelle color crema aveva perso la concezione del tempo e anche lo spazio cominciava ad assumere contorni incerti nella sua mente. Nemmeno quando una mano si posò leggera e premurosa sulla sua spalla, diede cenno di rendersi conto di quello che stava accadendo e si lasciò condurre inerte fuori dalla camera e verso una destinazione a lei sconosciuta.

Sentiva freddo, però: questo riusciva ancora a capirlo. Poco alla volta cominciò anche a percepire un insistente e strano tremore che le scuoteva tutta la parte superiore del corpo. Per un momento fu quasi sul punto di riprendere coscienza della situazione, a causa di una preoccupazione che le saliva su per il petto alla realizzazione delle sue condizioni fisiche, poi si accorse che la musica aveva smesso di suonare. Forse era già da un po’ che quel caos si era interrotto, o meglio, che qualcuno aveva interrotto quel caos spegnendo le casse che da ore tremavano sotto i bassi dei brani che si riproducevano uno dopo l’altro senza sosta.

Il silenzio era improvvisamente tornato e, nonostante si sentisse sollevata e cominciasse a spostare le mani via dalle orecchie, si rese conto che quel rumore era stato fino a quel momento un muro dietro cui nascondersi e ripararsi.

“Va tutto bene” le ripeteva una voce dolce. “Adesso ti porto a casa.”

Sentiva distintamente le parole che le venivano rivolte: distingueva le sillabe che sentiva pronunciare, le connetteva logicamente formando delle parole di senso compiuto e legava anche fra di loro le parole per dare vita ad una frase che nella sua mente aveva senz’altro corpo; tuttavia non riusciva a capire per quale ragione quelle frasi venissero pronunciate o quale correlazione avessero con la situazione che stava vivendo. Ma poi, di quale situazione stava parlando? Era finita in una camera che si trovava con tutte le probabilità in una casa che non era la sua; ma prima c’era il vuoto.

Appena un paio di secondi dopo si rese conto della stupidità della sua osservazione: qualcuno le aveva detto che l’avrebbe riportata a casa, di conseguenza quella in cui si trovava non poteva in ogni modo essere la casa in cui abitava lei. E allora dove si trovava?

Per tutto quel tempo la mano era rimasta sulla sua spalla. Non sapeva quanto quel tutto fosse effettivamente durato, ma supponeva che, se c’era un tutto, ci dovevano essere anche varie parti in cui quel tutto poteva essere suddiviso e pensato. Si poteva andare avanti per un bel po’ a dividere quel tutto in parti, e le parti sarebbero state sempre più piccole e poi ancora e ancora più piccole fino all’inverosimile, finché non fossero state quasi inesistenti, un istante impercettibile e insignificante. Poteva dividerle e renderle nulle in modo che ciascuna frazione di quel tempo valesse zero. Se poi avesse nuovamente sommato tutte quella parti nulle cosa avrebbe ottenuto? Era abbastanza sicura che sommando infiniti zeri fra di loro si sarebbe ottenuto solo un ennesimo zero. La conclusione a quel punto era abbastanza semplice: il tempo che stava trascorrendo era nullo e di conseguenza gli eventi si stavano svolgendo come fuori dal tempo, in una dimensione in cui lo scorrere dei frammenti temporali era soggetto all’arbitrio di una legge fisica oscura e ancora da decodificare. Le leggi della fisica cominciano ad esistere nel momento in cui qualcuno le traduce in teorie e formule; fino ad allora rimangono potenze imperscrutabili che la gente può pensare essere il risultato dell’operato di un Dio terribile che dimora in un regno celeste al di là dello scibile umano e al di là delle nuvole.

La mano si spostò dalla sua spalla per fermarsi al centro della sua schiena. In un primo momento il tocco fu delicato e quasi impercettibile, poi la stretta si fece più decisa. Si abbandonò a quella presa che sembrava volerla guidare e lei non ebbe altra scelta che lasciarsi condurre per non perdersi in quella dimensione atemporale in cui si era scoperta a vagare.

Si trovò seduta all’interno dell’abitacolo di un’auto: di quello era abbastanza sicura e riuscì anche ad appurare la comodità della vettura che la ospitava. Voltò di qualche grado la testa in modo che la guancia fosse poggiata sulla stoffa del seggiolino e in quel momento si rese conto dell’odore familiare che la circondava. Cercò di sforzarsi per identificare la persona a cui quell’odore dolce e deciso apparteneva, ma nessun nome riuscì a materializzarsi nella sua mente.

“Stai comoda?” le venne chiesto. C’era qualcun altro nell’auto insieme a lei, seduto al posto del guidatore. Che sciocca: l’auto non si sarebbe certo guidata da sola. Annuì con un piccolo movimento della testa. Giusto qualche secondo prima aveva pensato che si sentiva comoda. O forse lo aveva pensato in seguito alla domanda che le era stata posta? Non avrebbe potuto dirlo con certezza.

L’auto venne messa in moto con un rombo ovattato. Dal rumore delle ruote al contatto con la strada dedusse che non si trattava di asfalto quello su cui stavano passando, ma una strada sterrata ricoperta di sassolini o ghiaia. Dopo quelli che dovettero essere un paio di chilometri l’auto smise di sobbalzare per le continue curve e buche e si immise in una strada principale asfaltata e silenziosa. Il sommesso gorgoglio del motore era come una ninnananna e rischiò di assopirsi un paio di volte, cullata da quell’odore familiare e confortante che a quel punto capì dovesse per forza appartenere al guidatore. Pensò di girarsi alla sua sinistra per svelare l’identità della persona che la stava accompagnando, almeno stando a quello che aveva detto, a casa sua. Poi ci ripensò: non voleva interrompere quell’equilibrio precario di piccole certezze che si era costruita durante il tragitto e, più di tutto, aveva il terrore di non riuscire a riconoscere nessuno nel volto della persona che gli si sarebbe presentata davanti.

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