L’anti-provvidenza de “L’acqua del lago non è mai dolce” di Giulia Caminito
- Bianca
- 16 apr 2021
- Tempo di lettura: 2 min
È un mondo di ingiustizie e battaglie perse quello in cui è costretta a vivere Gaia; un mondo che la introduce fin dall’infanzia alla cruda realtà dell’esistenza; un mondo che non mostra pietà e verso cui anche lei imparerà a non mostrare nessuna pietà.
Di certo il romanzo di Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce, opera fra l’altro candidata all'edizione 2021 del Premio Strega, non lascia spazio a quella pietas di cui Enea fu senz’altro il massimo portatore. Non c’è spazio per nessun sentimento che spinga l’uomo alla devozione e al rispetto, perché in quel mondo dimora solo una disperata lotta per la sopravvivenza che non ammette regole.
L’esistenza di Gaia porta fin dal principio con sé un segno di sventura, che la tormenterà per tutto il suo percorso di crescita e di formazione, dall’infanzia, alla prima adolescenza, fino all’affacciarsi verso l’età adulta. Sono quei capelli rossicci che detesta, il cui colore acceso fa a pugni con la sua personalità scura e con la sua presenza defilata; invece quella chioma vermiglia sembra voler dire a tutti coloro che le passano accanto, sia letteralmente che metaforicamente nella strada della sua vita, «sono qui, osservatemi e giudicatemi».
Ma il messaggio che lei vorrebbe gridare in faccia agli altri è un altro, completamente opposto eppure non così distante da quello che dicono i suoi capelli: tenta di respingere tutti, di fare piazza pulita intorno a sé, e se da una parte sembra farlo per indole innata, per quel suo carattere scontroso, dall’altra potrebbe inconsciamente reagire così per proteggere chi le sta accanto dalla sua misera condizione.
Questo intrecciarsi di cose dette e non dette, magari solo pensate, accennate o appena sibilate ai confini delle labbra è sottolineato dall’interessante espediente a cui l’autrice del romanzo ricorre per tutto il corso dell’opera. Non ci sono virgolette a segnalare le parole dei personaggi, niente punteggiatura che abbia lo scopo di indicare l’inizio di un discorso diretto e poi la sua fine: la voce delle persone viene direttamente sputata sulla pagina come se in fondo fossero loro a scrivere il libro, come se non si volesse innalzare quel muro fra il direttore d’orchestra che dirige come marionette le azioni dei personaggi e le azioni dei personaggi stessi. Ci sembra quasi che essi agiscano per propria volontà, e le loro scelte sbagliate e talvolta insensate non fanno altro che contribuire a tutti ciò: nessuna traccia di un narratore-scrittore che costruisca con cura la prossima mossa del protagonista di turno, solo il brutale, testardo e inconsistente scorrere degli eventi.
Non c’è nessuna Provvidenza che intervenga per dare un senso alla storia, che si prenda l’incarico di ricompensare i buoni e punire i cattivi. Non irrompe sulla scena nessun deus ex machina che rimetta a posto una trama che ha seguito senza briglie il naturale scorrere degli eventi, in un flusso continuo che nessuno governa.
C’è solo l’anti-provvidenza di un universo senza Dio, di un mondo in cui il giudizio universale non scenderà mai sulla terra alla fine dei tempi perché la giustizia l’avrà già fatta a suo modo l’uomo.
Ecco come si presenta il romanzo di Giulia Caminito: schietto, senza speranza e crudele.
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