L'Antologia di Spoon River
- Andrea
- 12 mar 2021
- Tempo di lettura: 3 min
L’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, uscita in America nel 1915, è essenzialmente un’indagine sulla natura umana, condotta attraverso 248 epitaffi, nei quali sono i defunti stessi a lasciarsi andare ad un impietoso consuntivo della propria vita, nell’attimo esattamente successivo all’ultimo battito di cuore, all’ultimo sussulto di fiato.
I trapassati ci parlano dalla propria tomba, attraverso i propri epitaffi, insorgono contro la vita che fin lì li ha condotti, con un rabbioso furore che mai, da vivi, conobbero; probabilmente vi è più vita in queste loro spettrali parole che in tutta la loro passata esistenza.
Lee Masters racconta l’umanità, muovendosi di lapide in lapide, tracciando una mappa di quelle che sono le contraddizioni, i vizi e le torbide passioni di una piccola comunità rurale, nel quale microcosmo è però facile riscontrare la natura di tutti gli uomini, pur senza pretese di universalità.
Una piccola sfaccettatura di America, della piccola borghesia americana di primo novecento, che vuole rappresentare la degradazione occidentale e che, nonostante il secolo ormai trascorso, riesce ancora bene a tratteggiare l’animo umano e le vicende che lo riguardano.
A proposito di ciò, Cesare Pavese, primo importatore dell’opera in Italia, così si espresse: “Masters guarda spietatamente alla piccola America del suo tempo e la rappresenta in una formicolante commedia (ove il riferimento a Dante non appare privo di fondamenta) umana, dove i vizi e il valore di ciascuno germogliano sul terreno assetato e corrotto di una società, la cui involuzione è soltanto il caso più clamoroso e tragico di una generale involuzione di tutto l’Occidente”.
Ma l’Antologia di Spoon River è anche un’indagine sull’etica, un’etica che attanaglia e imprigiona, un’etica di cui i defunti si spogliano solo con la morte, rendendo così liberi e liberatòri i propri epitaffi, fino a farne veri e propri inni alla libertà, privi di remore e vincoli alcuni. È la morte che dona a questi tristi passeggeri della vita una “Goccia di verità”, parafrasando De André, il quale tanto fu legato a quest’opera.
La voce che si alza dalla necropoli ci appare come un grido di rimpianto che perfettamente riassume il contrasto tra le agognate ed inesaudite aspirazioni e la caducità della vita.
Il cimitero di Spoon River è innanzitutto il cimitero dei sogni e delle ambizioni abortite, tarpate non di rado dalle sovrastrutture morali, dal puritanesimo e dal convenzionalismo che quella comunità imponeva; molto spesso gli epitaffi suonano come un “Confesso di non aver vissuto!”.
Non è tanto la destinazione finale a destare sgomento nei nostri defunti, quanto il viaggio, non la cessazione della vita, bensì lo spreco di quest’ultima, come perfettamente è riassunto nell’epitaffio, meraviglioso, di George Gray, che potremmo ergere a paradigma dell’opera.
L’opera risente dell’influsso della poesia sepolcrale inglese del XVIII secolo, anche se con quest’ultima non condivide le atmosfere macabre che la contraddistinguono, così come altri “tòpoi” classici della scuola cimiteriale pre-romantica. Inoltre gli epigrammi di cui è composta sono stati accostati più volte a quelli di natura funerea facenti parte dell’Antologia Palatina, la quale pare abbia influenzato non poco Masters. L’autore utilizza un linguaggio scarno, icastico, perfettamente in sintonia con il verso libero con cui sono composti gli epigrammi, piuttosto brevi, perlopiù. La poesia di Masters ha tono narrativo, mai declamatorio: fu lo stesso autore a definire l’opera come “Qualcosa di meno della poesia e di più della prosa”, come ci racconta Fernanda Pivano, a cui va il merito della prima traduzione (1943) e conseguente diffusione dell’opera nel nostro paese, non senza difficoltà dovute alla rigida censura fascista.
A conclusione di questa breve “introduzione” al mondo di Spoon River, desidero proporvi per intero l’epigramma sopraccitato, l’epitaffio di George Gray, che, come detto, ci restituisce ottimamente lo spirito dell’opera, così come lo stile che la contraddistingue.
George Gray
Molte volte ho studiato la lapide che mi hanno scolpito: una barca con vele ammainate, in un porto. In realtà non è questa la mia destinazione ma la mia vita. Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno; il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura; l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti. Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita. E adesso so che bisogna alzare le vele e prendere i venti del destino, dovunque spingano la barca. Dare un senso alla vita può condurre a follia, ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio. È una barca che anela al mare eppure lo teme.
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