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Piranesi e la casa: fuga e ritorno nella fantasia

  • Bianca
  • 19 mar 2021
  • Tempo di lettura: 2 min

L’ipotetica esistenza di altri mondi oltre al nostro ha da sempre affascinato, anzi, oserei dire ossessionato, l’uomo fin dall’alba dei tempi: se in origine si trattava di un mondo divino e inarrivabile abitato da creature celesti, nel corso dei secoli si è prospettata la possibilità di mondi paralleli al nostro dalle caratteristiche più disparate.

Come sempre, la letteratura è la prima a lanciare azzardate ipotesi sulla fisionomia di questi mondi alternativi e se le descrizioni romanzesche sono state davvero tante, forse anche troppe, ci soffermeremo oggi a fare qualche considerazione su una delle ultime produzioni a proposito: la Casa plasmata dalla scrittrice inglese Susanna Clarke.

Il suo ultimo libro, intitolato Piranesi, ci trascina all’interno delle vicende di un personaggio alquanto bizzarro dal nome omonimo, che trascorre le sue giornate a tracciare le maree e a raccogliere alghe da essiccare. L’ambiente in cui Piranesi si muove e trascorre le sue giornate è un immenso palazzo dalle architetture possenti e infinite, che richiamano la grande classicità delle costruzioni greche e romane. Le sale nelle quali si trova a vagare paiono estendersi per chilometri e chilometri, tanto che Piranesi, pur nella sua maniacale annotazione della planimetria dell’edificio, non riuscirà mai a tracciare tutti gli spazi di quel mondo infinito.

Il richiamo al nome del protagonista è piuttosto evidente: egli fa eco all’architetto Giovanni Battista Piranesi, detto Giambattista, vissuto nel Settecento e noto per le sue tavole incise caratterizzate da una magnificenza e una drammaticità che rimanda con malinconia in tutto e per tutto ad un grandioso passato ormai andato perduto.


La curiosa originalità introdotta dalla scrittrice nella creazione del mondo che ci troviamo davanti è il presupposto che crea l’universo: questa dimensione parallela alla nostra è nata e poi si è sviluppata e arricchita via via che l’umanità ha perduto e abbandonato credenze, conoscenze e valori, sostituendoli con altri nuovi.

Ed ecco come mai fra le giganti architetture troviamo statue di dei, creature mitologiche del passato e altri soggetti o rappresentazioni che ci trasportano in un'antichità portatrice di una conoscenza oggi dimenticata. Le stesse sale che ricordano templi greci ci riportano alla mente un tempo diverso dal nostro, così lontano e dai connotati così distanti dai nostri da impedirci di poterlo comprendere nella sua complessità.


Il modo, assolutamente personale, in cui ho voluto interpretare questo romanzo mi costringe a pensare al filosofo che più di tutti ha cercato di indagare le oscure fonti e le misteriose radici dell’antichità classica prendendo, ovviamente, a modello i greci, ovvero Nietzsche. Il libro può essere quindi inteso come un ultimo disperato tentativo di ricercare quella sorgente da cui scaturì il momento forse più alto di tutta la storia dell’umanità. Tuttavia, come possiamo immaginare, quella ricerca si rivela vana, e questa presa di coscienza ci viene messa davanti agli occhi nel momento in cui il protagonista del romanzo lascia le sue, ormai care, sale abitate da enormi statue e torna nel nostro mondo. Così la ricerca viene interrotta e la prospettiva di un ricongiungimento ideale con l’antico e con il suo mondo viene abbandonata: forse preferiamo la confortevole monotonia del nostro quotidiano alla fatica per la ricerca di un mondo fantastico perduto.

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