Sul concetto di capolavoro
- Francesco
- 23 apr 2021
- Tempo di lettura: 3 min
Nella dimensione comunicativa del linguaggio non esiste forse una parola più abusata di capolavoro. Nelle conversazioni che intratteniamo quotidianamente questa parola può comparire nei contesti più impensabili: “che capolavoro di parcheggio che ho fatto” oppure “questo caffè è capolavoro”.
Nonostante la banalizzazione che le esigenze comunicative ed espressive comportano, è necessario avere ben presenti le implicazioni estetiche e artistiche che la parola porta con sé. Avere una coscienza della forza semantica delle parole è infatti l’unico modo per addentrarsi nella complessità che il linguaggio ci presenta ogni giorno, in ogni situazione.
Partendo dall’etimologia, la parola capolavoro deriva dal francese ed è attestata nel Medioevo per indicare l’opera con cui un artigiano entrava a far parte di una corporazione di lavoratori. Proprio con la sua migliore realizzazione, il suo capolavoro, l’artigiano entrava a far parte del mondo del lavoro. In italiano invece la parola si attesta dal XVIII secolo e come campo più prolifico di diffusione trova naturalmente la sfera artistica. Al giorno d’oggi la parola indica propriamente l’opera migliore di una determinata categoria di produzione. Il capolavoro di Umberto Eco è Il nome della rosa, il capolavoro del cubismo è Guernica.
Finché la discussione rimane su questi termini, ovvero viene posto un limite netto alla rosa delle opere prese in considerazione (la produzione di un poeta, i dipinti di una corrente artistica), si può giungere, con qualche precisazione, ad una dichiarazione univoca. In altre parole, solo stabilendo i criteri secondo i quali assegnare l’etichetta di capolavoro, si può giungere ad un’univocità dell’assegnazione. Per i casi prima presentati la soluzione è presto detta: si definisce propriamente come capolavoro l’opera che meglio presenta le caratteristiche fondanti di una produzione ben identificata. Ad esempio un movimento poetico come l’Ermetismo, che fa dell’analogismo irrazionale e della difficoltà semantica la sua cifra stilistica, avrà senz’altro come suo capolavoro la raccolta di Quasimodo Erato e Apollion. Altri esempi vengono subito alla mente: Le muse inquietanti sono il capolavoro della Metafisica di De Chirico, I promessi sposi sono il capolavoro di Manzoni.
Quel che risulta evidente è che più la categoria di riferimento si amplia, più diviene difficile identificarne i caratteri fondanti e di conseguenza riuscire a identificare il capolavoro che le rappresenta. Un’impostazione del problema tale non riesce dunque a offrire una soluzione. Inoltre, come potrebbe un’impostazione del genere chiarire la dicitura di capolavoro in assoluto? Come potrebbe estendere la categoria di capolavoro alla produzione letteraria di ogni epoca? E, in ultima istanza, come potrebbe giustificare la dicitura di capolavoro dell’umanità?
Uno spunto decisivo e che può indirizzare la nostra riflessione ci giunge dal filosofo Walter Benjamin. Egli afferma che il capolavoro sia quell’opera d’arte che istituisce un genere e lo conclude allo stesso tempo. Una definizione che restringe decisamente il campo della nostra speculazione. In effetti opere del genere probabilmente si contano sulla punta delle dita. L’esempio più evidente è senz’altro la Commedia dantesca, un’opera che istituisce un genere a sé, anche difficilmente definibile per etichette (poema epico-sacro?) e lo conclude. Un’opera talmente grandiosa da segnare l’inizio e la fine del genere.
Osservando il problema da questa prospettiva risulta evidente che un genere capace di esprimere un capolavoro lo istituisca per l’intera categoria artistica e per l’arte in generale. La Commedia non è un capolavoro all’interno del suo genere, e non lo è neanche per la letteratura, lo è per l’arte tutta. Con questo approccio la questione appare più chiara e getta luce su quanto sia improprio utilizzare l’etichetta nel linguaggio quotidiano.
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