Breve guida a Franz Kafka
- Giuseppe
- 11 dic 2020
- Tempo di lettura: 3 min
I racconti e i romanzi di Kafka non sempre sembrano avere senso. Pare quasi di trovarsi davanti ad una storia scritta così di getto, per così dire, giusto perché il suo autore stava fantasticando su certe scenette surreali e magari è arrivato qualcuno a mettergli una penna tra le dita. Di solito la prima reazione è, del resto naturalmente: ma dov’è che i critici hanno visto tutte quelle riflessioni grandi e profonde, qui dentro?
In effetti Kafka descrive un mondo straniato, anomalo, altro; ma questo mondo anomalo è appunto funzionale al messaggio che Kafka propone, nella maniera più intuitiva e libera da schemi artificiosi o macchinose speculazioni, ai suoi lettori. È forse difficile spiegare il senso di alienazione che provarono i primi abitatori della modernità, le dinamiche delicate che si instaurano tra padre e figlio, la frustrazione e la nausea generate dalla scoperta dei meccanismi meschini di una burocrazia sterile e polverosa. Molto più facile è, invece, mostrare: un uomo ridotto a insetto schifoso, un padre che picchia con la scopa sul carapace nauseabondo e ormai sfondato a colpi di mela del figlio-insetto, un tribunale dai soffitti bassi e claustrofobici popolato di ometti insulsi e inconcludenti; tutto questo è immediato, facile, non ha bisogno di tante spiegazioni (in questo senso Kafka è addirittura molto più moderno di quanto già non si possa pensare, se è vero che una delle regole più seguite dai narratori contemporanei è quella che ammonisce e mette in guardia dal troppo spiegare: “show, don’t tell”). Ma le complicazioni non sono casuali né fini a loro stesse. Kafka voleva che le sue creazioni narrative fossero intricate, contorte, difficilmente interpretabili perché lui stesso era attratto dal più seducente dei limiti umani, quello della comprensione. Kafka amava porre anche i suoi lettori di fronte a questo limite; di qui l’assenza pressoché totale di spiegazioni, la ritrosia nei confronti della pubblicazione – sempre di qui, non da ultimo, la richiesta espressa nel testamento di distruggere tutti i suoi manoscritti.
Così ogni racconto, ogni romanzo di Kafka si inserisce in una sorta di puzzle più grande; un quadro nebuloso, confuso a sua volta, ma che nel suo insieme va a definire un universo parallelo al nostro. È anche per questo, quindi, che molto spesso stentiamo a trovare un senso logico nella narrazione kafkiana: leggere solo La metamorfosi o solo Il processo è guardare un unico pezzo del puzzle, ma già mettendo insieme, uno dopo l’altro, due, tre, quattro pezzi allora si comincia a scorgere il disegno per intero. In questo puzzle sfrenato e apparentemente illogico, però, possiamo stabilire dei punti fermi cui aggrapparci quando abbiamo bisogno di ritrovare l’orientamento mentre leggiamo Kafka: la famiglia, che è il luogo dell’ambiguo, regno del padre che giudica e punisce e vive del figlio come un parassita del suo organismo ospite; la cancelleria, che è il luogo della sporcizia, regno asfittico dei funzionari e di una giustizia che assimila l’esistenza a un processo senza termine e senza speranza per l’accusato. L’accusato è l’uomo, l’uomo universalmente inteso, e sotto il peso schiacciante di questo processo infinito l’uomo si piega, si ingobbisce e diventa brutto e deforme. Ma a questo proposito già un filosofo del secolo scorso notò che non può essere un caso che, tra tutti i gesti strani degli strani personaggi di Kafka, il più comune e anche il più inquietante sia appunto quello di piegare la testa – proprio come Atlante sotto il peso, chissà, del mondo intero.
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