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Cecità (o “Saggio sulla cecità”)

  • Giuseppe
  • 5 gen 2021
  • Tempo di lettura: 3 min

Nel 1995, in Portogallo, José Saramago pubblicava un romanzo intitolato Ensaio sobre a Cegueira, “Saggio sulla cecità”. In Italia il libro fu tradotto semplicemente come Cecità, perché si pensava che la parola “saggio” avrebbe allontanato i lettori facendo loro credere di non essere di fronte ad un’opera narrativa. In realtà, come sempre, il titolo originale è indicativo e preannuncia il senso dell’intero libro: pur dietro la forma di romanzo, il volume di Saramago è un saggio nel senso che si pone l’obiettivo di riflettere su determinati argomenti e di indagarne le cause e le possibili soluzioni.

La situazione di partenza è piuttosto semplice e per certi versi terribilmente attuale: in una cittadina sconosciuta, in cui non è possibile riconoscere nessun luogo preciso e dei cui abitanti Saramago non si preoccupa di fornirci il nome proprio, di punto in bianco un virus rende completamente cieco chiunque ne sia infettato; dalla cittadina sconosciuta il virus si diffonde in tutto il mondo. La trama ruota quindi attorno alle vicende di un gruppo di questi ciechi, che viene deportato in un vecchio manicomio riadattato a lazzaretto e quasi subito dimenticato dalle autorità e lasciato in preda ai disordini e all’anarchia dei suoi abitanti infetti; qui i ciechi ricostruiscono spontaneamente gli stessi schemi sociali che vigevano all’esterno, fatti di sfruttamento, violenza e ineguaglianza, ma in maniera molto più esasperata e potremmo dire animalesca. Così il Saggio sulla cecità diventa una sorta di laboratorio psicologico in cui Saramago, ricorrendo a tutto il suo potere immaginifico e alla sua capacità descrittiva, mette a nudo i vizi e le incoerenze dell’umanità: un’umanità votata all’egoismo, all’indifferenza e alla sopraffazione – “È di questa pasta che siamo fatti, metà di indifferenza e metà di cattiveria”. Del resto non è un caso che nessuno dei personaggi abbia un nome proprio, perché ognuno di essi non rappresenta in fondo che un tipo umano generalissimo e universale: il primo cieco, il vecchio con la benda nera, la ragazza dagli occhiali scuri, il ragazzino strabico, il ladro di automobili sono né più né meno che esemplari singoli di quell’unica specie umana che Saramago sta tentando di descrivere su toni così pessimistici. Né il virus causa una malattia totalmente nuova, dato che l’umanità è cieca da sempre (“Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono”); l’unica differenza è che prima si trattava di una cecità intellettuale, di una incapacità di guardare alle cose del mondo da una prospettiva chiara e svincolata da qualsiasi fine narcisistico e omocentrico: ora invece la cecità è anche fisica, ma in fondo a parte questo cambia molto poco.

Eppure in questo ribollente marasma umano c’è ancora un barlume di speranza: è la moglie del medico, l’unica che per ragioni che nessuno pare capire è riuscita a conservare la vista e che quindi può vedere il vero volto dell’umanità dietro la maschera (verità che in Saramago assume un aspetto spesso grottesco e sconcertante nella sua materialità e fisicità, attraverso stupri di massa e corridoi infestati dal cattivo odore e sulle cui piastrelle si rischia di scivolare per via dell’accumulo immondo di scarti e resti umani). Sarebbe forse inutile commentare le immagini viscerali che troviamo nel Saggio sulla cecità, e se non l’ha fatto Saramago nel suo romanzo certamente non ci arrogheremo la presunzione di farlo noi qui; d’altra parte si tratta di quadri così vividi, così potenti da farsi comprendere con molta facilità senza l’interferenza di alcun mediatore. Ma se proprio vogliamo trovare un senso morale in tutta questa storia, la cosa migliore è come sempre affidarsi alle parole del suo stesso autore: “Se non siamo capaci di vivere globalmente come persone, almeno facciamo di tutto per non vivere globalmente come animali.” È questo ammonimento che dovremmo tenere a mente per quando, finalmente, l’epidemia si sarà consumata e l’umanità sarà tornata a vedere.



Il consiglio di Alessio; vino da degustare durante la lettura: Syrah 2017 Stefano Amerighi.

Siamo a Cortona in una terra unica, dove il Syrah trova la sua espressione più vera.

Amerighi un artigiano della vigna, il syrah un vitigno che se coccolato dà grande struttura ed eleganza, un connubio perfetto.

Il vino è vero, diretto, a tratti ostico, difficile da capire. È un vino profondo, di grande struttura e fattezza, con note di sottobosco e pepe nero. Un vino che si ricollega molto bene al testo, che va controtendenza, che stupisce che se bevuto alla cieca, lo si riconosce subito, grande carattere ed identità.

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