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Fight club

  • Giuseppe
  • 30 apr 2021
  • Tempo di lettura: 3 min

Chuck Palahniuk è un autore caustico, crudo, forse troppo poco conosciuto; il che è strano, perché il romanzo con cui ha raggiunto il successo nel 1996 è lo stesso Fight club da cui è stato tratto il famosissimo film di David Fincher con Brad Pitt e Edward Norton. “Prima regola del Fight club: non parlate mai del Fight club”, dicono i due attori nel film, e probabilmente si tratta di una delle citazioni più note del cinema contemporaneo; eppure molti, che pure la conoscono o hanno visto il film decine di volte, neanche sanno che è adattamento del romanzo breve di un autore ottimo ma che passa quasi inosservato nelle librerie italiane.

Il Fight club, prima che una sorta di forma di aggregazione semi-clandestina per cui maschi di ogni età e provenienza sociale si ritrovano in scantinati bui e edifici abbandonati per prendersi a scazzottate, per scaricare lo stress e le frustrazioni di una vita inappagante, è uno stato d’animo o psicologico. Il Fight club è un raccoglitore di derelitti, falliti, esauriti; è qualcosa che assomiglia molto alle riunioni degli alcolisti anonimi o a quei circoli che si vedono nei film americani in cui un gruppo disparato di individui vacui e spauriti, accomunati dallo stesso problema (vuoi il cancro, la sterilità, vuoi qualche altra cosa), si siedono in cerchio su seggioline di plastica sgangherate a bere caffè annacquato sotto la luce giallognola di un’unica lampadina appesa a un filo mezzo mangiato dalle tarme che pende dal soffitto scrostato. È uno stato d’animo o psicologico perché di uno stato d’animo o psicologico è, in primo luogo, trasposizione e manifestazione concreta; perché prende le mosse dalla psiche malata e un po’ perversa di due individui: il narratore anonimo e Tyler Durden, il primo goffo, impacciato, inconcludente, l’altro bello, sfacciatissimo e sciupafemmine – e d’altra parte, così diversi, i due sono le facce speculari di una stessa medaglia: Tyler è tutto ciò che il narratore vorrebbe essere, ma non è. Le atmosfere sono a metà tra il surreale e il degradato, addirittura l’inizio delle avventure del narratore sconosciuto è una stralunata sequela di descrizioni di incontri (alcolisti, tumore ai testicoli, al pancreas, genitori single e quant’altro), di bombe al napalm fabbricate artigianalmente con succo d’arancia congelato e benzina, sesso non protetto e dildo di plastica. Tutto è raccontato in prima persona e come in un sogno, tutto è sconnesso, si passa dal presente al futuro e poi di nuovo al presente, al passato, come in un annullamento della coscienza obnubilata di un drogato. Del resto è questa la sensazione che dà il Fight club con tutte le sue scazzottate: è come una droga, ti eccita, ti sovraccarica e poi ti spompa di tutta la depressione e la frustrazione; è una parentesi non di felicità, assolutamente, ma come di sospensione, di annullamento dell’essere. I personaggi del romanzo si trascinano di pagina in pagina come zombie, i denti rotti, gli occhi neri, le costole incrinate; soprattutto, però, la testa annebbiata.

Ma questo clima di tensione, irrespirabile, è proprio funzionale al messaggio di cui Palahniuk vuole farsi portatore: la cultura occidentale è votata al vuoto e al consumismo, corrode gli animi dei suoi stessi abitatori; in questa realtà falsa, gli incontri clandestini del Fight club sembrerebbero una valvola di sfogo, ma uno sfogo del genere comporta il pericolo ancora più grande di perdersi definitivamente, poiché dove non c’è regola, dove non ci sono freni allora non c’è più società né umanità – perché è la nostra essenza sociale che ci rende uomini, ed è proprio in quanto privo di legami sociali o affettivi sinceri che il narratore prima cerca rifugio presso i circoli di alcolisti anonimi e poi cade nella trappola del Fight club.



Il consiglio di Alessio: vino da degustare durante la lettura: Montevertine 2018, 90% Sangiovese 5% canaiolo 5% colorino.

Tradizione e territorio, puro e diretto, elegantissima trama acida, un eccellenza di Toscana.

Ho scelto questo vino in quando la storia di questa azienda cambiò drasticamente quando nel 1982 Sergio Manetti uscì dal consorzio del Chianti classico e decise che voleva fare vino come voleva e piaceva a lui senza dover seguire le linee guida di un organizzazione. Fu un cambiamento storico che fece definitamente esplodere la fama di montevertine.

Un vino unico, che lascia sempre un qualcosa quando lo assaggi, fine elegante intenso con note di ribes, mora e ciliegia marasca, scorza di arancia e elegantissime note balsamiche e eteree, di grande freschezza e densità in bocca, un vino infinito

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