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Figlie del mare

  • Giuseppe
  • 13 nov 2020
  • Tempo di lettura: 3 min

“Nella cultura coreana nessuno viene chiamato con il proprio nome, sono tutti madri, padri, sorelle e fratelli, zie e zii, nonne e nonni. Anche gli estranei vengono chiamati così” scrive Mary Lynn Bracht. Si tratta di un aspetto della cultura coreana molto poco conosciuto fuori dalla Corea, ma in effetti, se ci pensiamo, una domanda sorge spontanea: quanto conosciamo davvero dei costumi e della storia coreana? Il romanzo di Mary Lynn Bracht, americana ma di origini coreane, vuole proprio disseppellire una pagina semisepolta di questa storia nazionale: la storia delle “donne di conforto”, che si inserisce nel più vasto teatro del secondo conflitto mondiale; una storia forse più dimessa, meno sensazionale ma non per questo meno importante o vera – i suoi traumi, le sue tragedie sono altrettanto grandi di quelli europei e in Figlie del mare trovano, finalmente, anche pari dignità.

È l’estate del 1943, la Corea è sotto la dominazione giapponese; la pratica di tradizioni, religioni e lingua coreane sono illegali. L’isola di Jeju è famosa per le sue haenyeo, donne pescatrici – da qui il titolo – che si immergono nei fondali al largo dell’isola per raccogliere abaloni e altri molluschi; Hana, giovanissima, è una di queste: un giorno, per salvare la sorella minore da un soldato giapponese mentre la madre è ancora sott’acqua, si lascia rapire. Questa è la premessa da cui si sviluppa tutta la trama del romanzo, raccontata ora dal punto di vista di Hana ora da quello della sorella Emi; trama, dunque, che risulta sdoppiata: da un lato le vicende di Hana, che viene deportata in Cina e finisce in una casa chiusa destinata all’intrattenimento dei soldati; dall’altro Emi, tanti anni dopo, anziana, che combatte con le nebbie della memoria nel tentativo di risvegliare un pur vago ricordo di quella figura indistinta che un tempo pare sia stata sua sorella.

Ma, al di là della storia in sé, che pure è molto bella ed emotivamente coinvolgente, l’autrice vuole portare l’attenzione del mondo appunto sul destino di Hana. Durante la seconda guerra mondiale, infatti, fu piuttosto comune che donne e ragazzine coreane (la stessa Hana ha solo sedici anni) venissero deportate come donne di conforto nelle regioni occupate dal Giappone. Di una donna di conforto Figlie del mare ci descrive la giornata tipo: colazione molto presto con le altre ragazze del bordello, poi in camera, stesa sulla schiena, ad aspettare che un soldato dopo l’altro sfogasse sopra e dentro di lei voglia e frustrazioni; così fino a sera, tutti i giorni della settimana. A una donna di conforto non rimanevano né libertà né nome, perché questo veniva sistematicamente sostituito con quello di un fiore (che, tra l’altro, indicava più la stanza del bordello che non le ragazze che di volta in volta la occupavano). Gli storici calcolano che l’esercito giapponese ridusse in schiavitù sessuale dalle cinquanta alle duecentomila donne, che, a guerra finita, nella maggior parte dei casi semplicemente sparirono nel nulla senza che le famiglie sapessero niente; e tuttavia anche le poche fortunate che riuscirono a rientrare in Corea dovettero soffrire in silenzio per anni, perché in una società patriarcale e fondata sull’ideologia confuciana come quella della corea degli anni Cinquanta e Sessanta la purezza di una donna è la sua più grande virtù. Risultato fu che per decenni la storia delle donne di conforto fu come dimenticata. Fu solo nel 1991 che Kim Hak-sun, ex donna di conforto, decise di raccontare ai giornali la verità, seguita poi da numerose altre; poco più tardi a Seoul, di fronte all’ambasciata giapponese, venne eretto un monumento chiamato “Statua della pace” che voleva rendere omaggio alle vittime della tragedia delle donne di conforto. In questo senso, nelle intenzioni dell’autrice Figlie del mare rappresenta proprio un ulteriore e consapevole atto di memoria: “È nostro dovere informare le generazioni future sugli orribili crimini che si commettono in guerra. Non dobbiamo nasconderli o fingere che non siano mai accaduti. Per non ripetere gli errori del passato, dobbiamo ricordarli. Libri di storia, canzoni, romanzi, film e memoriali sono importantissimi per aiutarci a non dimenticare mai e allo stesso tempo per procedere lungo la strada della pace.”


Il consiglio di Alessio, vino da degustare durante la lettura: Pian del Ciampolo 2016, Montevertine; Sangiovese 90%, Canaiolo 5%, Colorino 5%.

Originario di Radda ma non un Chianti, sebbene le uve siano le stesse. Un'azienda storica e dal blasone internazionale che ci presenta un vino semplice, schetto e dinamico. Al Sangiovese, perno fondamentale, si affiancano due vitigni poco conosciuti ma autoctoni e storici, capaci di donare uno spunto di freschezza e eleganza. Al palato troviamo frutta rossa, bella acidità e note speziate, un finale pulito e molto fine. I due vitigni possono essere definiti dei fratelli minori del Sangiovese, capaci di completarlo e infondere una nota tipica del territorio; un parallelo intrigante con le protagoniste del romanzo Ana e Emi: sempre legate nonostante la distanza e le difficoltà, un legame autentico.

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