Memorie di una Geisha
- Giuseppe
- 23 ott 2020
- Tempo di lettura: 3 min
Nella finzione narrativa l’intero romanzo si configura come una lunga traduzione delle memorie orali di Sayuri, forse la geisha più famosa di tutta Kyoto. Nel raccontare la sua vita Sayuri è prima di tutto onesta, ma quasi in maniera inconsapevole dipinge un mondo che al traduttore che la sta ascoltando, americano, occidentale, non può che sembrare l’ambientazione distante e favolosa di una leggenda medievale o di un poema epico cavalleresco. Eppure lo stile solenne, la sacralità delle vicende vengono sistematicamente sconfessati dalla stessa natura orale del racconto e dalla sincerità di Sayuri, che non è nata per il rossetto rosso e il kimono e le acconciature intricatissime. “Non sono nata e cresciuta per essere una geisha di Kyoto”, confessa nelle prime pagine del libro. “Non sono neanche nata a Kyoto. Sono la figlia di un pescatore di un piccolo villaggio chiamato Yoroido sul Mar del Giappone. […] Molte persone preferiscono credere nelle loro fantasie che mia madre e mia nonna fossero geisha, e che io abbia cominciato il mio allenamento nella danza appena staccata dal seno, e così via.” Non è stato assolutamente così per Chiyo – questo era il nome di Sayuri prima che diventasse una geisha. Chiyo è stata venduta dal padre vedovo e in miseria ad una ochiya del quartiere di Gion – “Non diventiamo geisha perché la nostra vita sia felice, ma perché non abbiamo scelta” – e che sia finita con il diventare la geisha più famosa di Kyoto è stato solo frutto del caso (d’altra parte la sorella, venduta anche lei, viene costretta alla prostituzione in un bordello a poche case di distanza dall’ochiya). A Kyoto Chiyo è affascinata dalla bellezza senza tempo di quelle donne truccate di bianco che si chiamano geisha, ma è soprattutto l’incontro con un uomo gentile che fa scattare in lei la determinazione di abitare in prima linea il loro mondo – “Conduciamo la nostra esistenza come acqua che scende lungo una collina, andando più o meno in un’unica direzione finché non urtiamo contro qualcosa che ci costringe a trovare un nuovo corso.” Un giorno quest’uomo, vedendola piangere, sola, bambina, le compra un cono gelato e le regala il suo fazzoletto. Da questo momento in poi la vita di Chiyo sarà una continua lotta contro le avversità nella speranza di diventare un giorno una geisha, cioè una di quelle donne che ai suoi occhi grigi di bambina ha il privilegio di poter accompagnare uomini tanto gentili e distinti (del resto, in un poema cavalleresco l’amore è un elemento che non può mai mancare). Avversità che sono varie e anche terribili, e che si snodano attraverso l’odio e l’invidia delle altre geisha e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, ma che soprattutto restano reali: non solo perché Sayuri le racconta con la sua tipica onestà, ma piuttosto perché la storia è largamente ispirata alla vita della geisha Mineko Iwasaki, realmente esistita (la quale tra l’altro viene citata nei ringraziamenti e per questo alla pubblicazione del libro denunciò l’autore per diffamazione, poiché aveva violato il codice di riservatezza e anonimato delle geisha e ne aveva diffuso un’immagine falsificata e degradante come di prostitute d’elite).
Ma, al di là dei fatti raccontati, è il modo in cui Sayuri li espone che cattura il lettore. Arthur Golden, infatti, si serve di una prosa quasi espressionistica che dà forma concreta tanto agli stati d’animo quanto ai ricordi della protagonista – così, per esempio, la casa d’infanzia mezza storta e inclinata a causa del vento diventa “ubriaca”. Questo stile molto preciso, descrittivo, a volte bizzarro è volto alla creazione di un fortissimo sentimento di empatia che lega il lettore a Sayuri e alla bambina che prima di lei era stata Chiyo; empatia che, mi sembra, trova la sua massima espressione nella nostalgica poesia incisa nel tempio: una poesia senza parole, che comunica solo in quanto forma d’intuizione e appunto di legame empatico – “Al tempio c’è una poesia intitolata ‘La Mancanza’, incisa nella pietra. Ci sono tre parole, ma il poeta le ha cancellate. Non si può leggere La Mancanza, soltanto avvertirla.”
Il consiglio di Alessio, vino da degustare durante la lettura: IGT Haiku 2016 Castello di Ama; Sangiovese 50%, Merlot 25%, Cabernet Franc 25%.
Un vino dai rimandi giapponesi che si sposa alla perfezione con la tradizione nipponica presentata nel romanzo di Arthur Golden; in questo caso il castello di Ama a Gaiole in Chianti ha deciso di omaggiare il famoso genere poetico dell'haiku giapponese creando un vino semplice, caratterizzato da un gusto profondo, articolato ma pur sempre naturale, fine ed elegante con note di sottobosco e tannino non eccessivo. Un vino che reinterpreta il territorio toscano assumendo i connotati raffinati e orientali.
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