Un'epopea sommersa: Il cavallo rosso
- Francesco
- 29 ott 2020
- Tempo di lettura: 3 min
Ci sono libri che feriscono, libri che affondano nella carne del lettore e lo segnano per tutta la vita. Questi lasciano cicatrici che solo il tempo, l’esperienza e la vecchiaia possono rimarginare inutilmente: esse resteranno l’eterno simbolo di una coltellata, scagliata al cuore della nostra sensibilità.
É il caso del romanzo di Eugenio Corti, Il cavallo rosso. Non preoccupatevi, non siete gli unici a non conoscerne il titolo o l’autore: questa incredibile epopea storica non occupa un trafiletto nei moderni libri di letteratura, non giace adagiato negli scaffali delle librerie più in voga. La storia di questo libro è una di quelle che gettano nello sconforto: totalmente insabbiato dalla critica nostrana, esaltato come l’apogeo della letteratura italica all’estero.
Si è usata la parola “epopea”, impegnativa come definizione ma quanto mai appropriata: se è vera la famosa nozione secondo la quale il romanzo moderno sarebbe la rinascita dell’antica epica, pochissimi romanzi potrebbero rivaleggiare con il monumento narrativo di Corti. Egli si impegna in una mastodontica narrazione, in parte autobiografica, sugli anni che vanno dal 1940 al 1974. Non è difficile immaginare la tematica principale e il fulcro dei primi due volumi dell’opera (dei tre di cui si compone): la tragedia (parola non scelta senza cognizione di causa data la profonda affinità che il romanzo intrattiene con il genere teatrale) della Seconda guerra mondiale e degli “umili” chiamati a districarsi nella temperie. Un romanzo senza dubbio corale, che si rifà alla grande tradizione ottocentesca, che sviluppa le vicende dei ragazzi della cittadina di Nomana in Brianza.
Il lettore avrà modo di conoscere i sentimenti dei protagonisti, di vivere con loro le incertezze dei primi anni bellici, di assaporare i loro amori, le loro passioni e li seguirà, infine, nell’inferno della campagna russa, vero apice e apogeo della narrazione. Proprio in questo frangente le ferite con cui l’articolo si apre incideranno la loro drammatica violenza nel lettore: le atrocità della guerra, l’umanità sacrificata sull’altare di ideologie atroci; prima su tutte (nel pensiero dell’autore) quella comunista con la quale molti dei personaggi si troveranno a fare i conti.
Il quadro descritto non dà adito a dubbi: ci troviamo davanti ad un’opera dall’ampissimo respiro, tragica, epica, che strappa un sorriso nelle pause belliche, che strazia l’anima nell’abisso ghiacciato del martirio. A questo punto sorge spontanea una domanda: “come mai non ne ho mai sentito parlare?”. Il motivo è presto detto. Sin dalle prime pagine la componente cristiana è presente, una presenza che va ingigantendosi nel corso del secondo volume per sfociare in una determinata e sprezzante critica al marxismo nell’ultimo volume. Una critica che coinvolge un lungo periodo temporale e una miriade di aspetti della realtà meccanizzata del secondo Dopoguerra. Una critica che al lettore moderno appare incomprensibile in alcuni frangenti data l’estraneità al dualismo tra PCI e DC di quegli anni. Ma nel 1983, anno di pubblicazione, la liberalizzazione dei costumi era in piena evoluzione, la dialettica tra i due schieramenti opposti era sul viale del tramonto e per questo ancora più senza quartiere: ne seguì una drammatica stroncatura degli intellettuali di sinistra e la relegazione nell’abisso degli scrittori dimenticati.
Eccoci dunque al nodo polemico dell’articolo: possiamo noi, lettori del secolo XXI, accantonare i pregiudizi ideologici dei nostri padri e rivalutare un’opera del genere oltrepassando l'ideologia che sottende?
Credo sia doveroso rispondere affermativamente e riscattare dall’oblio uno dei più grandi capolavori della letteratura contemporanea. D’altronde non lo facciamo forse leggendo Dostoevskij, Tolstoj o Manzoni?
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